memorie di guerra di Francesco Formigari

Rielaborazione letteraria

 

Questa pagina raccoglie tre capitoli di un dattiloscritto lasciato dal Formigari e che, probabilmente, costituivano elementi di un libro in fase di realizzazione ma mai portato a termine. Costituiscono un epilogo, pur ragionato e postumo, alle immagini di vita in guerra che le frammentate cartoline dal fronte ci hanno trasmesso dal passato.

Guerra, contadini e soldati del Quindici. Una notizia del Gazzettino e appuntamento col Feldmaresciallo von Hoetzendorf. Una voce salgariana.

Il passaggio dall'infanzia all'adolescenza coincise per me col trasferimento in un'altra città: una nuova grande città in cui non erano più navi e fari e staggi, ma torri e plaustri, non più odor di salso ma di nebbia. Questo mutamento per me del teatro del mondo mi torna alla memoria anche per un modo diverso di considerare le persone: quelle di laggiù, dell'avventurosa città dell'infanzia, le rivedo come ombre o macchiette, in loro gesti e modi che non mi riguardano, oggetto soltanto di miei fuggevoli apprezzamenti; mentre nella nuova città le persone mi risultano a tutto tondo e io comincio a sentirmi in rapporto con loro, con maggiore consistenza. Il mondo cominciava a ingranarmi; nella luminosa levità dell'infanzia cominciavano ad apparire le zone d'ombra che indicano il processo di materializzazione proprio della decadenza degli angioli e del loro fatale richiamo alla terra. Si è condotti a ragionare su quello che faremo da grandi, nasce l'aspirazione ai calzoni lunghi, si è dalla natura e dalla società assoggettati alla penosa iniziazione terrena. Si spegne a poco a poco la capacità di abbandono alle cose, la coincidenza assoluta tra gioco e vita. Su quel tramite la memoria mi presenta, trasfigurato ancora, il ricordo della nuova città con prospettive di porticati a non finire, ora alti e solenni, ora bassi come tramiti oscuri, la ritmica e nobile successione degli archi tra cui s'apre la visione d'una chiesa con più alti archi e cupole e guglie e campane al cielo, e così di tanto in tanto essa ritorna in certi sogni in cui io vado, sgomento insieme ed attratto, ora salendo le vette ed ora discendendo ad antiche tombe e prigioni.

E così la sempre allegorica favola dell'infanzia potrebbe considerarsi conclusa, se invece un suo sopravvivente spunto nascosto non l'avesse germogliata e fiorita più tardi attraverso la frana del tempo ormai fatto.

Per arrivarvi col racconto, è necessario ora lasciar passare un certo numero d'anni, indicati come in ingenui espedienti cinematografici, da cifre a pieno schermo: 1908, 1912, 1915, su uno sfocato sfondo di eventi, quali terremoti, assassinii politici e folle tumultuanti e prima guerra mondiale.

Ora, da questo sfondo la favola si riforma rappresentando me in primo piano in una casa di contadini, durante una notte d'estate, nella pianura veneta intorno al Brenta. È l'anno 1916, e della guerra si sta svolgendo l'episodio passato alla storia col nome di Spedizione punitiva, gli austriaci si sono mossi in forze per invadere scendendo dall'Altipiano di Asiago la pianura veneta al fine di punire la traulose Italien. A parar la botta il nostro Comando ha raccolto in pianura quante più forze gli è stato possibile, e fra queste ci siamo anche noi d'un Reggimento tratto dall'Isonzo, e più precisamente dal monte San Michele. Per alcuni mesi siamo rimasti abbarbicati su quel dannato monte che ha il nome d'un folgorante arcangelo, e invece ci ha paralizzato in un lezzo di poveri morti. Laggiù con le bandiere dei Reggimenti falciati s'era anche richiuso l'entusiasmo e il bellicoso ardore delle prime settimane, e a ripensarci già sembrava di sentirsi superstiti d'un gran crollo, per una caduta desti da uno di quei sogni di cui poi si dice: ma guarda quali strane cose si son credute vere. Ora lassù, tra Sabotino e Oslavia e Podgora e San Michele e Cave di Selz fino a Monfalcone donde si vedeva Trieste, l'aria s'era fatta densa e pesante. Era come una lunga interminabile veglia funebre dove i ceri si fossero messi a impazzire per un loro triste estro in razzi e girandole. Poi ci si rifaceva alla meglio, per una decina di giorni a riposo, in certi paesi sbonconcellati dal cannone, dove, la prima volta, a smorzare la mia baldanza di sottotenente stampato di fresco ed i miei noti ardori interventisti, fui adibito a dirigere la rimozione del letame da tali stalle, che eran niente, al confronto, quelle d'Augia. Non avevo mai abitato in case di contadini, viste finallora dal treno soltanto, quasi mi pareva che tutte le case dei contadini dovessero essere così deserte col tetto sfondato e cortili con la croce di qualche tomba di soldato. La sera, dopo mensa, per le strade solcate dalle carreggiate profonde dei traini, si strascicavano con ostinazione strofette sentimentali alla moda, dove si parlava di giovinezza che se ne va, e faceva rima con bella età, contrappuntate dal pungente stridio dei grilli. Ora la spedizione nemica, per punitiva che fosse, ci restituiva almeno per qualche tempo a veri paesi dove le case erano intatte, con contadini dentro, a dormirci nei grandi lettoni gonfi di foglie di pannocchia. Quei contadini ci ospitavano senza fiatare, ma se ne stavano rintanati con qualche diffidenza, e gran mercé se talvolta ci era permesso di entrare nelle loro cucine, dove c'erano delle grasse e sbalordite ragazze, e delle vecchie pensose per quanto cercassimo di galvanizzarle con un'allegria di circostanza, intonata alla fierezza degli stivaloni e delle pistole. Noi si ronzava lì dentro come fino a pochi mesi prima si smetteva di studiare la dispensa univesitaria per andare a vedere in cucina cosa si facesse e si preparasse, per accertarci di care presenze. Anche quelle vecchie erano madri di soldati nostri, chissà dove erano ma nostri, che talvolta nei subitanei trasferimenti da fronte a fronte passavano col treno davanti a casa loro, e allora dagli a urlare alla disperata, dove si vedeva qualcuno accanto a un lume, la casa, ed era proprio come in un sogno, la casa restava indietro, si andava al fronte a morire. Non erano, quelle nostre vecchie, come quelle là dei paesi d'Isonzo, che avevano i figlioli dall'altra parte, li vedevamo nelle fotografie reggimentali appese alle pareti, con le stellette a sei punte ed i cordoni di scelti tiratori dell'Imperatore, e noi ragazzi in uniforme, di fronte a quelle madri del nemico non sapevamo come comportarci, ci pareva quasi d'averne fatta una grossa, e tale da giustificare la loro arcigna grinta, che nulla valeva a mutare.

Di contadini del resto era costituita tutta la soldatesca di fanteria, perché di operai ne comparivano assai di rado, e in un modo o nell'altro non ci restavano. Poveri diavoli di contadini infagottati in uniformi così abbondanti da poterne vestire per ogni soldato tre, non avevano nulla di marziale, non v'era ombra in essi, non dico di odio, per il nemico, ma nemmen d'avversione, il nemico era per loro un contingente aspetto dei guai dov'erano cascati. Ciò che li induceva a compiere il loro dovere di soldati, che ne faceva, nel complesso, un buon esercito, se i Capi fossero stati migliori, era soprattutto una tradizione che ininterrottamente prolungatasi dal vetusto esercito piemontese valeva ancora come efficace coagulo: il regolamento di disciplina, il signorsì, la tromba, il rancio, lo zaino, il ginocchiello di cuoio, l'esercizio “in ordine chiuso”, fu tutto ciò a tenere insieme milioni di uomini di fronte alla morte fino all'onorevole adempimento del loro compito. E a loro io dovevo comandare, a una sessantina d'essi comandare che si facessero ammazzare, io che non sapevo niente di loro, e ben poco del vivere, ancora, e del peso degli affetti, e delle memorie e della lontananza da una casa dove c'è una donna e ci son figli, e m'indignavo del loro scarso spirito militare, eppure era tutto sommato un buon esercito, quello, un regio esercito dabbene, sagomato dalla serietà delle scalcinate e squallide caserme e da colonnelli con fieri e intransigenti baffoni.
Dunque nel ricordo che ho sollevato dalle macerie d'un tempo perduto, questi tipi di soldati se ne stan stravaccati, armi e bagagli, sulla paglia, in attesa di qualcosa, perché, in fondo, la guerra è sempre un attendere qualcosa, ed io mi trovo in una stanza contadinesca seduto su una cassa di “selenite per fanteria”, cioè di cartucce di cui sto compilando il relativo “statino” di distribuzione alla truppa. Vicino a me sonnecchiano su due sacchi di materiale vario un furiere e il caporal tromba. Si attendono gli autocarri, a quanto si dice, ma chissà poi se gli autocarri arrivano, ci sarà certo il contrordine. Dicono che la Divisione è di riserva, e in tal caso son guai sicuri, sappiamo benissimo che la riserva dopo mezzora dall'inizio della battaglia è già in primissima linea ed oltre, per rimediare ai guai combinati dalle truppe di primo assalto. Vietato sperare o augurarsi un caso invece d'un altro. Il furiere russa, e il caporal tromba sbadiglia, è quanto può fare senza contravvenire al mio ordine di trovarsi pronto a dar fiato alla tromba al primo cenno. Accanto a lui anche la sua ammaccatissima tromba è sboccata in un ampio e lucente sbadiglio.

Finito il lavoro di scrittura, vorrei riprendere tra mano, per passare il tempo, il Carducci e il D'Annunzio che l'attendente mi ha messo sul tavolo a portata di mano. In uno zaino trovano posto anche i poeti, basta rinunciare a una razione di viveri. Certi versi mi ritornavano ogni tanto sulle labbra, pareva che sentissero il bisogno di essere declamati, erano per me come il bicchierino di grappa con cui all'alba scacciavo il sonno e il torpore. “Tu sali e baci o Dea col roseo fiato le nubi”, mi ripetevo nei cortili deserti degli accantonamenti o in mezzo alla strada, aspettando che la sveglia buttasse fuori i soldati nel momento esatto che io cronometravo per assicurarmi che il tromba facesse il suo dovere. Oppure: “A ogni alba gli archi dell'Urbe sembrano vomire la notte accidiosa che riempie i loro vani....” E dopo l'Urbe soccorreva anche Pallade “quand'ella indaga di sotto al suo casco corinzio le schiere ordinate nel campo e pesa il coraggio nei petti sì che al vile trema lo stinco nello schiniere di bronzo, ma la virtù si rischiara nel forte che pugna con arte”. Confesso che mi gonfiavano di poesia questi versi, che adesso forse fanno un po' ridere, come io da ragazzo ridevo dello Jacopo Ortis declamato da mia madre. Pallade Atena era al mio fianco mentre passavo in rassegna il plotone per presentarlo in perfetta tenuta al signor Capitano.

Questa volta però la copia del Gazzettino, ch'era accanto a quei poeti, m'attirava di più. Si sente nel silenzio della notte il cannone che macina sui monti. Il Gazzettino dice che se riescono a prendere quei monti, gli austriaci traboccano in pianura. Cioè qui dove siamo noi a sbadigliare. Ma tra la nostra condizione di sonnecchianti e quanto sta scritto nel Gazzettino, è difficile stabilire un nesso qualsiasi. Questa pare già storia, storia da libri, e noi non facciamo niente, quale rapporto possiamo avere con la storia, il furiere russa, io leggo il giornale a lume di moccolo. Eppure se mi affaccio, vedo nel buio lassù in alto un frenetico guizzare di lampi. Sono le nostre batterie che difendono il monte Cengio, il Novegno, il Summano, più oltre le granate del fuoco tanbureggiante nemico tracciano folli cadute di costellazioni. Stamane il Maggiore ci ha condotti sul campanile del paese, per indicarci le posizioni. Quello laggiù è il fronte d'invasione. Ha detto così, fronte d'invasione, e noi si stava ad ascoltare, non del tutto convinti che anche noi s'avesse a che fare con un “fronte d'invasione”. Poi il Maggiore s'è lagnato che non si riesce a far portare l'elmetto ai soldati. Gli elmetti d'acciaio sono una novità venuta di Francia, molti recano ancora come fregio la granata della fanteria francese con l'R. F. I soldati non li possono soffrire, i cappelli di ferro, come dicono loro, anche questo attesta la loro scarsa marzialità. Lo mettono solo quando le pallottole cominciano a fioccare, come s'apre l'ombrello quando comincia a piovere: ed aprire l'ombrello quando non piove è da stupidi.

Se quelli là riescono a sfondare, Verona e Vicenza rivedono gli austriaci che mio padre ha visto andar via. Incoerenze di sogno in cui col sonno sto per trapassare. La finisse di russare almeno, quell'animale di furiere. Il Gazzettino continua: “E' arrivato a Bolzano il Principe ereditario d'Austria, arciduca Carlo d'Asburgo. Si è recato ad incontrarlo al Quartier generale il Comandante dell'esercito, Feld Maresciallo Konrad von Hoetzendorf”.

Questo nome mi sorprende. Riesce perfino a riscuotermi dal sonno. Konrad von Hoetzendorf. Dove avevo incontrato questo nome. Ma sì, in un giornale. Però nove o dieci anni prima. Nella Tribuna. Ma allora dirigeva certe grandi manovre. Possibile? Per un giovane, nove o dieci anni sono un tempo enorme. Ancora lui? Contro di noi, da allora? O un suo figlio, o magari un nipote? Impossible, i Comandi di esercito oggi non si trasmettono mica di padre in figlio. E dunque è lui. Sempre lui. Io avevo abbandonato la favolosa età dell'infanzia, avevo superato la licenza liceale, studiavo archeologia, era stato inventato l'areoplano, e lui era rimasto lì, ad aspettare, paziente, per punirmi, con uno scapaccione.
Una voce imperiosa e, direi, salgariana, tuonò all'improvviso alle mie spalle.
- C'è qui un ufficiale?

Un incontro inopinato a punto giusto. Notizie di eroi scomparsi. L'affare della paglia finisce a suon di tromba.

A quest'imperiosa voce mi volsi verso la porta. Mi trovai davanti un fulgente ufficiale dei Granatieri, in una tenuta di combattimento così perfetta da parere inverosimile, il che mi condusse più presto a ravvisare nel nuovo venuto, quasi ancor prima che entrasse nel fioco lume della candela, lui, Aldo, il mio compagno di ragazzesche avventure. Non lo vedevo da sei o sette anni, e devo confessare che in questo tempo avevo ben poco pensato a lui. Ora, scontata la prima meraviglia dell'incontro, questo risultò invece del tutto naturale. Come se ci fossimo dati appuntamento per una delle nostre imprese, con la differenza che questa volta il nemico era Konrad von Hoetzendorf.

Ciò mi sbarazzò subito dai torbidi pensieracci di dianzi. Quando si vedeva gente d'altri Reggimenti, di mostrina diversa, s'era portati ad attribuirle certe solide e regolamentari virtù guerriere che noi non eravamo sicuri di possedere; ed altrettanto pensavano quelli, a lor volta, e nello stesso tempo, di noi. Nel caso, poi, di quell'incontro, tale fiducia era assai meglio fondata: al seguito del ritrovato amico non erano, come altra volta, alcuni malfidi mercenari, bensì si trovava tutta la brigata Granatieri. Il quadro acquistava toni più sostenuti. Vero è che questa soddisfazione era venata di qualche inquietudine. Ora mi rammentavo che la paglia su cui i miei soldati stavano dormendo, essi l'avevano sottratta ai Granatieri del vicino accampamento. Non avevo, fino a quel momento, ignorato la presenza di simili personaggi, ma l'avevo pensata come gente alle cui spalle, nonostante l''orgogliosa statura, ci si potesse arrangiare. Siccome paglia, coperte, cappotti da trincea e tant'altro materiale vario non bastava a tutti, perché la maggior parte andava sprecata per incuria, tutto ciò cambiava di continuo, mediante astuzie e colpi di mano, proprietà. Era, per così dire, un possesso precario e fluttuante, sempre riservato ai più destri. Questo si chiamava arrangiarsi, e contribuiva ad esercitare quello spirito d'iniziativa di cui un buon soldato non deve mancare.

Miserie che evidentemente con Aldo non potevano avere rapporto alcuno. Infatti il nostro dialogo scivolava senz'altro verso i nostri comuni fatti d'altro tempo, e il ti ricordi questo e il ti ricordi quest'altro, senza che ci passasse per il capo di domandarci quale occasionale motivo ci avesse riuniti. Risultava implicito, invece, in quel momento, che nessuna ragione o forza al mondo avrebbe potuto impedire il nostro incontro. Era Aldo, del resto, a saper tutto, di ciò che ci interessava in comune, perché era rimasto laggiù, nel paese della favola, fino all'anno avanti. A me inoltre pareva quasi che un deciso passaggio di età, nell'amico, non fosse avvenuto: lui ragazzo s'era fatto Granatiere e la sua ultima trovata era riuscito a farla prendere sul serio; perché il mio caporale e il mio tromba, riscossi dalla loro apatica sonnolenza da quell'alto, da quel biondo, da quel fulgore di alamari, restavano in mezzo alla stanza in posizione d'attenti che non ci curammo affatto di smobilitare.

- Ti ricordi, disse Aldo, il baronetto?
Sicuro, il baronetto Filippo, come si chiamava, di casato, per l'appunto il baronetto Filippo?
- Di Belmonte, Filippo di Belmonte.
Assaporammo il ricordo del baronetto Filippo di Belmonte, nella sua veste da camera, simile a birillo.
- Era in cavalleria, poi passò in aviazione. È scomparso. Pare che lo abbiano abbattuto mentre volava sopra Trieste o da quelle parti.
Il buffo ricordo del birillo cedette a un breve silenzioso compianto.
- Era nella caccia, aggiunse Aldo. Pare che fosse un asso, ribadì ancora. Assalito da un intero stormo nemico, vi tenne testa, da solo, fino alla fine.
Lo ripensammo ancora, il baronetto, nella sua aristocratica noncuranza, fino alla fine.
- Ti ricordi, disse Aldo, di Zaccheo?
Di Zaccheo? Altro se me ne ricordavo. Mi doveva ancora quindici rate di cinque centesimi l'una, per un affare di raccolta di francobolli. Con gli interessi di sette anni, potevo contare su un credito di qualche consistenza.
- Dov'è andato a finire, Zacchèo?, domandai con interesse.
- Zacchèo è morto, annunciò Aldo. Stava nel vettovagliamento, un posto di poco pericolo, e poi c'è sempre qualche affaruccio da combinare, col caffé e col formaggio. Una granata l'ha buttato all'aria, col suo caffé e il suo formaggio.
Compiangemmo in silenzio Zacchèo. Mi sarebbe piaciuto, ora, incontrarlo, e dirgli: Va là, Zacchèo, ti condono l'intero tuo debito, basta che non muori. Era un buon diavolaccio, Zacchèo, inoffensivo; non era stato un gran successo, per l'artiglieria austriaca, privare il nostro esercito di Zacchèo.
- Ti ricordi, disse Aldo, Capelli rossi?
Tremai per Capelli rossi. Sospettavo ormai che le rievocazioni di Aldo fossero simili all'appelli d'una Valchiria sul campo degli eroi perduti.
- Capelli rossi, proseguì Aldo, si buscò tre anni di carcere correzionale.
Io respiravo. Il carcere, dopo tutto quello che avevo sentito prima, era una notizia consolante, da augurare a un caro amico.
Sì, di carcere, proseguì ancora Aldo. Era uno di quelli del quartiere Archi, vicino alla Stazione, no?, che calavano le bombette sulle teste dei passanti. Ma le bombette, ormai, si facevan rare, la moda portava alle lobbie. Capirai che una volta che Capelli rossi, sarà stato tre anni fa, lui n'avrà avuto diciassette, una volta che Capelli rossi ne vide una, delle bombette, passare sotto gli Archi, da prima non credette ai suoi occhi, poi si precipitò a mollare un lattone.
- Tre anni per un lattone?
- Tre anni e fu bazza per lui, perché il proprietario di quella bombetta si trovò ad essere il vice questore, e allora il fatto è diverso, oltraggio a funzionario della forza pubblica, sovversivismo, cattivi precedenti, insomma tre anni di correzionale.
- E' ancora dentro?
- No, un'amnistia lo liberò prima di scontare la pena. Col carcere per ragioni politiche, intanto, e col lattone al vice questore, era diventato popolare fra la sua gente. Quando venne la guerra, tenne un comizio, dove disse che tutti dovevano andare a questa guerra, perché era una gerra contro i Troni, le Corone, le Monarchie, e che una volta abbattuto l'Impero austriaco sarebbe stata la volta del Re d'Italia, perché i troni, diceva, si appoggiano uno all'altro, e a scalzarne uno crollano tutti. Ciò detto, s'arruolò volontario. Il Distretto aveva ordine di mandare tutti i volontari alla Brigata Re, e così Capelli rossi fu arruolato nella Brigata Re, e rimase ucciso da una fucilata in una trincea del Podgora mentre era di vedetta con la corona reale sul suo berretto di fantaccino.
Ripensai Capelli rossi intento a mangiarsi di gusto una frittella di castagnaccio, umano atto che mi persuadeva più che non il suo gesto finale di voler abbattere il trono. Comunque, era stato un uomo, Capelli rossi, anche se si era buttato via. Noi eravamo d'altre idee politiche, ma al diavolo le idee politiche. In silenzio rendemmo l'onore delle armi all'avversario caduto. Forse egli valeva più di noi. Perché, in quel momento, posto fine al necrologio, ci sentimmo un po' vuoti di noi stessi, come deboli. Forse di stoffa diversa, un po' scadente, non sottratta a una vita soggetta a scoramenti, abbandoni e oblii. Tanto vero che dal dispiacere trapelava insinuante e infame la lusinga di non dover subire quella sorte, riservata ai personaggi d'una favola alla quale ci eravamo, in un silenzioso ed opaco intervallo di tempo, sottratti. Qualcosa di simile io provavo, Aldo non so; forse essere molto alti, essere Granatieri, è diverso, io gli arrivavo sì e no alle spalle.
- Pare che si parta presto, disse Aldo. Dicono che l'Armata di riserva si scioglie e le sue Divisioni entrano nella Prima Armata.
Andammo verso la finestra, guardammo fuori, laggiù, in alto. Costellazioni di scoppi sciamavano a morire sui monti e il temporale dei cannoni bubbolava sotto le ferme stelle nel cielo sereno. Era notte grande, e vi respirava all'addiaccio un'intera Armata. Ciò mi restituì consistenza e decoro.
- A proposito, dise Aldo. Io sono venuto qua per una storia. Ci avete rubato la paglia e il nostro Colonnello è su tutte le furie. Adesso come la mettiamo? Lui vuole la sua paglia.
Giusto, che il Colonnello dei Granatieri reclamasse la sua paglia. Ma anzitutti si trattava non già di furto, che è reato borghese, bensì di arrangiamento, che è virtù militare. E poi, adesso, chi se la sentiva, di andare a toglier la paglia di sotto ai soldati. Neanche i Granatieri ce la potevano.
Tutto ciò valutai nel mio animo, memore che, quanto a dialettica, avevo sempre battuto l'amico Aldo. Ma non ci fu bisogno di intavolare la discussione, perché entrò un sergente tutto affannato ad annunziare che certi soldati del Genio stavano rubando la paglia prelevata da noi. Prelevata, disse il sergente, con un candore che attestava la perfetta conoscenza del linguaggio militare.
- Vedi?, dissi ad Aldo. Puoi dire al tuo Colonnello che se la pigli col Genio.
Aldo non ebbe il tempo di replicare, perché la porta s'aprì di nuovo, e questa volta apparve il Capitano. Era un tipo proveniente dai Bersaglieri, e poiché voleva che lo sapessero tutti a prima vista, portava le mostrine della fanteria cucite sulle fiamme dei bersaglieri, orribile infrazione che faceva aguzzare su di lui gli occhi di tutti i suoi superiori di fanteria, ma non c'era verso di convincerlo a rinunciare alle fiamme cremisi e ai bracaloni alla zuava. Scattammo sull'attenti e fu in quella posizione che ricevemmo l'annuncio.
- Tra due ore tutta la Divisione dev'essere in movimento. Si attendono gli autocarri. Lei mandi in maggiorità a prelevare le carte topografiche, tavolette Lèmerle-Boscon-Cesuna. Compagnia per plotoni affiancati, testa al lato sinistro della strada.
E il Capitano se ne andò.
- Tocca a noi, constatò Aldo.
- Anche al Genio, toccherà?, domandai.
- Eh, lo credo. È il Battaglione divisionale, segue le sorti.
- Ah, bene. Segue le sorti. Ho piacere. Beh, Aldo, già, dicevi tu, e per quella paglia, come la mettiamo?
Ma lui, dopo un frettoloso saluto era già fuori, correva via a raggiungere i suoi, quelli che noi chiamavamo la fanteria prolungata, e parve che fosse lui a destare per la campagna un alacre squillar di trombette, anche il mio tromba aveva dato, d'iniziativa, fiato alla tromba, mi squillava all'orecchio una strepitosa adunata, quale non avevo mai sentito.

Colonnello vichingio. Un cammino e un ritorno. Sul limite d'un sogno. Immeritato applauso finale.

L'alba ci colse a filare in autocarro in direzione dei monti. Alla partenza aveva vigilato il Colonnello, un Palermitano che barba rossa e occhi celesti e statura grande rivelavano a prima vista un Normanno. Questo Vichingio saltò in aria un anno e mezzo dopo, non so se per bomba o granata, mentre, col grado di generale che s'era guadagnato sul campo, moveva all'attacco alla testa della sua Brigata, ed ora è sepolto al Verano. Lungo la strada incontravamo profughi e loro carrette di masserizie, che scendevano dall'orlo bruciato della battaglia. Marostica era imbandierata, i tre colori al vento dicevano no alla paura, e la gente sulla soglia delle case sventolava i fazzoletti al nostro passaggio e ci diceva “benedeti”.

Poi si fu su per le montagne, le vere montagne che non avevo mai veduto, le nere fronti dei boschi che si prospettavano in fondo a prati d'un vergine e tenero verde, e mi pareva che la vibrante eco metallica delle salve d'artiglieria di campagna fosse di quei boschi la voce naturale; ancor oggi, quando entro in un bosco, mi pare di risentirla. Ci scaricarono in un luogo detto Osteria di Granezza, l'osteria c'era ma era diventata un posto di pronto soccorso, e in fondo ad una conca tutta circondata dai boschi risentimmo il chiaro schianto dei fucili Mannlicher, quello più sordo dei nostri Novantuno. I feriti che la battaglia spurgava raccontavano con enfasi che le cose andavano male, che le Brigate Piemonte e Forlì non potevano più reggere, i feriti hanno sempre l'idea che tolti di mezzo loro non c'è più niente da fare, la battaglia è perduta.

Lì sostavano, buttati sul bordo della strada, alcune centinaia di prigionieri freschi, e trovandoci noi sull'altro lato ad aspettare il nostro momento, ebbi la curiosità di osservarli. Benché storditi ancora scattavano nel saluto, e al mio saluto rispondevano a loro volta gli ufficiali più elevati in grado di me, perché a quel tempo vigeva ancora una certa cavalleresca solidarietà militare, e imparare a stimare il nemico è forse il risultato positivo delle guerre. E io mi dicevo: Eccoli. Loro. Gli austriaci. Avanzi d'un Reggimento di cui forse era “proprietario” un Arciduca, e che forse annoverava tra i suoi fasti Novara e Custoza. Nei loro quartieri, là in fondo, i Colonnelli e i Generali recavano ancora al colletto della giubba le dorate foglie di quercia su fondo rosso che avevo visto su certi ritratti incantati nella casa dello zio canonico. Prima di partire per l'orgogliosa spedizione punitiva, l'Arciduca Carlo e il Feldmaresciallo barone von Hoetzendorf, in feluca e penne verdi, si son presentati, nel Castello di Schönbrunn, a colui al cui cospetto s'era presentato a suo tempo Radetsky, Radetzsky che aveva avuto in simpatia mio nonno, e gli diceva: Signor Latmiral, ho in serbo una buona bottiglia per Lei. Tutto ciò era strano, scompigliava le prospettive del tempo, e dall'osteria ogni tanto veniva fuori uno in camice bianco a scaricar catini di sangue. Il bosco rintronava di colpi, le batterie sparavano a zero. Poi ci comparve davanti il Colonnello vichingio, e toccò a noi.

Le sorti della battaglia ci furono favorevoli, il nemico non passò, e noi a nostra volta avanzando s'oltrepassò Cesuna, s'entrò ad Asiago, all'addiaccio nei neri boschi sostammo, fluttuammo come gli eventi d'ora in ora volevano, risalimmo oltre Gallio la valle di Campomulo, fronteggiavamo più alte montagne al cui piede s'addensavano le brigate per rinnovare cocciuti assalti. Poi una pallottola mi mise in moto a ritroso, prima trascinandomi come potevo, poi a cavalluccio d'un soldato, poi in autocarro, infine in treno ospedale. I grandi boschi si richiusero di nuovo dietro di me, le montagne si ritirarono in loro eccelsi e appartati spazi, il bubbolio del cannone sembrò di nuovo un innocente temporale lontano. Nei paesi c'erano sempre le bandiere al vento, e la pianura era dolce come sdraiarsi in un letto. E finalmente in un letto mi trovai davvero. In principio provavo vergogna dell'infermiera perché da quaranta giorni non mi spogliavo, ero lurido, ma essa era giovane e materna, mi infilò in un rinfrescante camicione, e quando mi assestò per bene la piega del lenzuolo mi parve d'essere ritornato bambino.

Di lì ad alcuni giorni, quando fui riscosso da quella specie di sogno, mi ricordai che mi trovavo in quella stessa città nella quale avevo frequentato la seconda elementare, in via del Paradiso. L'avevo saputo dal primo arrivo, ma ero stato intento solo a provare ripetutamente con la gamba ancora sana e mobile il senso delle lenzuola, ed a guardare la giovane infermiera, com'era strana, nella sua naturalezza vitale. Ma ora i ricordi tornavano. La seconda elementare in via del Paradiso. La maestrina di Pinocchio, quella che aveva detto che sarei stato un bravo soldato. Beh, se non c'era da vantarsi non c'era neanche da vergognarsi. Il giornale annunciava: “Il bivio stradale delle Mandrielle, Gallio, Asiago, Cesuna, il monte Cengio sono sati da noi liberati. L'avanzata continua...” Sarebbe stato curioso, però, ritrovare la maestrina di Pinocchio e del bravo soldato, e dirle: “Si ricorda?” Ma d'uscire in volta per la città non era da sognarselo, neanche più tardi, noi risputati dalla battaglia s'era sempre in sospetto d'indisciplina, di strafottenza, quasi rappresentavamo, così come s'era, una infrazione ai regolamenti, la vista d'un elmetto scandalizzava i Colonnelli territoriali. Per avere qualche fiasco di vino s'introduceva nascosto nella carrozzella d'un Capitano al quale avevano risegato tre volte una gamba. Si prestava di cuore a collocare quei fiaschi sotto la coperta, al posto della gamba che non c'era più. Poi, la notte, dopo le bevute, qualcuno di noi urlava nel sonno, allarme e fuoco e avanti e storie simili, allora l'infermiera che vegliava accanto alla lampada schermata accorreva a dirgli: Buono, si calmi, non è vero, ma dove mai crede di essere, ma lei disturba tutti gli altri con questi urli. Allora si sorrideva all'infermiera come a un sogno cambiato in bello, si mormorava grazie, scusi, buoni buoni ci s'addormentava di nuovo.

Già, quell'anno di allora. Era il millenovecento esatto, principio di secolo. C'era la rivolta dei boxers in Cina e manipoli di fanteria europea difendendo le Legazioni volgevano in fuga sterminate orde di Cinesi. Poi avevano ammazzato il re, e questo sentivo dire in una stanza quadrata, dal pavimento di vecchi mattoni rossi, e a una finestra una tenda con la scenetta d'un cacciatore che passa su di un ponticello un rivoletto romantico presso una casa di legno col tetto aguzzo, e mia madre pensava alla regina alla quale avevano ammazzato il re, e n'era molto afflitta. In una scialba pellicola cinematografica dove pareva che piovesse alla dirotta, la Regina Margherita scende dalla corazzata Lépanto, e qualcuno, dietro, una di quelle ombre in pioggia, le posa la mantellina sulle spalle, le mosse di quei personaggi sono a scatti, come burattinesche, la macchina dei fratelli Lumière funziona così. La Regina è pettinata come mia madre, con un cignone altissimo, e, certo, porterà anche lei quel cuscinetto ad uso posteriore che mi piaceva tanto cavar dall'armadio e applicarmi a luogo suo buffoneggiando. Poi, in un passaggio di tempo, ci ha sorpreso alta la neve in uno sbalordito silenzio di città. E' un silenzio che cambia qualcosa dentro di noi, ci si sente diversi, e quindi più vivi. Allora la maestra dice che sarò un bravo soldato. Le vignette del libro di scuola rappresentano battaglie contro gli austriaci, ma quella è la storia, e la storia, adesso, dunque è finita? La storia universale Sonzogno a centesimi cinque la dispensa? Ora la storia mi aveva ripreso. Mio padre e mia madre e le mie sorelle sono venuti a trovarmi e io ho potuto raccontar loro la battaglia contro gli austriaci, dove mi sono trovato anch'io. Mi ascoltano, mio padre che ha visto gli Ulani per le vigne del suo paese, mia madre che a cinque anni ha veduto entrare gli “Italiani” nella sua città.

Accadde poi, una quindicina di giorni dopo, quando mi avviavo verso la convalescenza, che fu offerto a noi ufficiali feriti un palco nel teatro della città, dove si rappresentava una di quelle vecchie operette di repertorio nostrano che il patriottismo aveva imposto di sostituire alle operette viennesi. Accadde quel giorno un fatto che mi vergogno ancora a raccontare: quando entrammo nel palco, tutti gli spettatori si levarono in piedi e ci applaudirono. Sorpresi e spaventati ci ritraemmo ai due lati del palco, nell'ombra, a fare il vuoto a quell'applauso, cercando insomma un angolo morto. Che cosa mai credeva, quella buona gente? Sì, essa ci acclamava come, figuriamoci, i salvatori della città che per un certo tempo aveva tremato di rivedersi dentro i tedeschi. Ma, ci ripetevamo nella nostra confusione, che cosa credeva? Noi ci s'era trovati in alcuni luoghi per un certo tempo, intanto che in quei luoghi e in quel tempo accadeva qualcosa. Quel fracasso di applausi ci sembrava uno scherzo discutibile, qualcosa di strambo, di sfasato. Quanto a me, ricordavo per giunta che quegli stessi bravi cittadini mi avevano fatto sonare la gran marcia dell'Aida sotto le finestre di casa, in mio onore, quando avevo appena sei anni, per via del “premio di prima classe” ricevuto proprio lì, accanto al cupolotto del suggeritore. Me ne stavo rintanato nell'ombra, in fondo al palco, ansioso che quella storia finisse. Se mai, lì davanti, in vista del palco, spettava ad altri trovarsi: a quelli che non erano più tornati. Toccava a Capelli rossi, a Filippo di Belmonte, a Zacchèo, sicuro, anche a Zacchèo, e forse ad Aldo, di cui non avevo potuto aver notizia, e ricordavo i mucchi di Granatieri morti, in una valle vicino al Lèmerle, neri, come ciocchi bruciati. Toccava a tutti quelli che sorridevano uno accanto all'altro in tante file sulla Domenica del Corriere, fieri nel loro galloncino di sottotenente come se ciascuno fosse davanti alla madre sua e dicesse: vedi, mamma, come sono bravo e bello.


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rev. A1 28/06/21